In questo scritto mi occupero' di rendere palesi le linee portanti che hanno guidato il lavoro della Commissione istituita dal Ministro delle finanze Augusto Fantozzi e incaricata di redigere una proposta di legge fiscale sulle cosiddette Organizzazioni non lucrative di solidarieta' sociale (Onluss). Dal momento che altri membri della Commissione entreranno nel merito della proposta di legge per illustrarne i vari aspetti specifici di natura sia economica sia giuridica, ritengo necessario focalizzare in questa sede l'attenzione sulla "filosofia" che, per cos dire, ha determinato l'architettura della proposta stessa.
Cio' corrisponde ad una duplice esigenza di metodo. Non e' possibile apprezzare o, se del caso, criticare questo o quell'articolo della proposta in questione se non si conosce la "visione", cioe' l'idea del futuro possibile ad essa sottostante. Se non si conoscono, in altri termini, gli obiettivi al servizio dei quali la proposta di legge e' deliberatamente posta.
In secondo luogo, ragionare sulla matrice filosofica del provvedimento vale come antidoto ad una tentazione ricorrente in casi del genere: quella di prendere le mosse da una definizione. Si tratta di una tentazione forte, cui e' pero' necessario resistere.
Infatti, se definire un oggetto, un campo di attivita', significa fissare dei confini, non e' mai opportuno partire dall'operazione di recinzione; conviene piunosto addentrarsi e girare per il campo, anche a rischio di qualche sconfinamento. La ragione e' che una definizione, per quanto raffinata e rigorosa, e' sempre backward looking, vale a dire e' sempre riferita a qualcosa che e' esistito o che esiste.
Senonche' una realta' come quella del terzo settore, in continuo divenire e soprattutto in rapida evoluzione, mal sopporta di venire costretta all'interno di una definizione, foss'anche la piu' elaborata. Inoltre, come e' ampiamente noto, parecchie sono ormai le definizioni oggi disponibili di terzo settore, da quelle giuridiche a quelle sociologiche a quelle economiche - definizioni non sempre contingenti, ne' tra loro conciliabili. Ne consegue che, mentre e' certamente utile conoscerle e tentare accostamenti, non sarebbe saggio - nel momento in cui si cerca di disegnare un nuovo assetto istituzionale per il settore - impegnarsi in alcuna di esse. Come le regole del metodo scientifico insegnano, le definizioni vengono sempre dopo che un certo ambito di studio e' stato esplorato; mai prima.
Un'ultima precisazione. Il progetto attorno al quale la Commissione e' stata chiamata e' quello di una legge fiscale per le Onluss. Non e' dunque lecito sovraccaricare tale progetto di compiti che esso non puo' assolvere. Ho tuttavia fondati motivi per ritenere che l'auspicata rapida conversione in legge di tale disegno determinerebbe un'accelerazione del processo politico, oggi in atto, finalizzato a regolare il terzo settore nella sua globalita'. Come piu' di un autore ha osservato, l'ordinamento italiano appare in questo ambito assai articolato, ma al tempo stesso sprovvisto di una logica d'insieme da cui far discendere una politica pubblica capace di garantire l'autonomia e l'indipendenza del terzo settore. Cio' ha finora determinato la proliferazione di figure giuridiche collocabili in uno spazio intermedio tra la sfera pubblica e quella privata.
La proposta di legge di cui qui si parla si colloca all'interno di un disegno volto a realizzare in Italia un trattarnento fiscale unificato per tutte le organizzazioni di vario tipo rientranti nel terzo settore. La necessita' di muovere speditamente in tale direzione e' legata alla circostanza che, indipendentemente dalle modalita' con cui si e' finora attuato nel nostro paese il coinvolgimento delle organizzazioni del terzo settore nelle politiche pubbliche del welfare - un coinvolgimento, come e' n-to, di mutuo accomodamento tra Stato e terzo settore -, occorre affrettare i tempi per l'indipendenza piena e l'autonomia totale del terzo settore.
Le condizioni di indipendenza e di autonomia sono infatti necessarie - sia pure non sufficienti - se si vuole che, in una societa' ormai complessa ed evoluta come la nostra, le organizzazioni del terzo settore agiscano non solo come fornitori di servizi sociali oppure come erogatori di ultima istanza, ma anche come soggetti di intermediazione sociale e politica. In altro modo, se si vuole - come pensosi debba volere - che il terzo settore non solamente giochi un ruolo decisivo nella realizzazione delle politiche sociali, ma sia in grado di concorrere al policymaking, alla determinazione cioe' dei processi decisionali inerenti tali politiche. E' questa la sfida che la Commissione ha voluto raccogliere: cercare di liberare il terzo settore dalla dipendenza economica e dalla subalternita' politica dagli altri due settori, lo Stato e il mercato privato.
Secondo il modo tradizionale, tuttora prevalente, di concettualizzare l'attivita' economica, le funzioni che un sistema economico - quale che esso sia - e' tenuto a svolgere (allocazione delle risorse produttive tra i vari impieghi possibili; produzione di beni e servizi; distribuzione degli stessi tra i soggetti) vengono realizzate all'interno dei due settori dello Stato e del mercato. Come e' noto i meccanismi all'opesa in questi due settori si differenziano sotto un duplice aspetto: da un lato, quello dell'informazione, ossia del tipo di messaggi aventi per oggetto le caratteristiche e le scelte individuali, dall'altro quello della regola decisionale in base alla quale si giunge ai risultati a partire da ogni dato insieme informativo. La teoria economica determina poi, sulla base del criterio di efficienza, gli ambiti di rilevanza dei due settori; attribuendo alla sfera del mercato (primo settore) la produzione e distribuzione dei beni privati e alla sfera dello Stato (secondo settore) la distribuzione e produzione dei beni pubblici.
E' questo, in estrema sintesi, il nucleo centrale del paradigma dicotomico tuttora dominante nel discorso economico. Tuttavia, duplice e' il motivo di insoddisfazione per lo stato attuale delle conoscenze in tale ambito. Il primo e' che la conoscenza delle condizioni che devono essere soddisfatte per generare risultati di efficienza non basta ad identificare i meccanismi attraverso i quali e' possibile ottenere quei risultati. Il secondo motivo - ed e' quello che qui preme sottolineare - e' che la realta' ci presenta soggetti e organizzazioni la cui logica di funzionamento e' qualitativamente diversa da quella sia dello Stato sia del mercato. Se, grosso modo, possiamo identificase lo Stato con l' insieme delle attivita' organizzate e legittimate da poteri coercitivi e il mercato con l'insieme delle attivita' riguardanti lo scambio dei beni e servizi finalizzato al profitto, il terzo settore puo' essere identificato con quelle attivita' in cui ne' la coercizione formale ne' lo scambio orientato al profitto e' il principio informatore delle attivita' medesime.
In altri termini, mentre nei settori statale e di mercato il principio di legittimazione delle decisioni economiche e' costituito nell'un caso dal diritto di cittadinanza e nell'altro caso dal potere d'acquisto, nel terzo settore esso e' piuttosto rappresentato dai principi regolativi di quella che possiamo chiamare economia civile. Vediamo, in breve, di chiarire.
Un'importante linea di ricerca storiografica ha suggerito di identificare nella riflessione umanistica, soprattutto italiana, del XV e XVI secolo una tappa essenziale nella costituzione della concezione moderna di societa' civile. Autori come Bernardino da Siena, Leonardo Bruni e Matteo Palmieri bene pongono in evidenza il passaggio dalla visione patrimoniale (e quindi statica) della ricchezza caratteristica della tradizione aristotelica ad una concezione dinamica delle ricchezze individuali, di cui si sottolinea il carattere di strumento per l'esercizio della virtu', all'interno di una prospettiva in cui lo stesso processo di arricchimento e' considerato un'importante manifestazione di capacita' personali. Di grande importanza e' anche la connessione tra ricchezze individuali e ricchezza sociale, cos come l'attenzione rivolta a quello che si potrebbe chiamare il ruolo "civile" delle ricchezze. L'accrescimento delle ricchezze individuali, purche' avvenga in un contesto di "economia civile", puo' essere considerato un contributo essenziale al benessere dell'intera comunita' politica. Si noti la distanza di questo punto di vista sia dalla concezione aristotelica di ricchezza (in cui la ricchezza e' un fondo di risorse date di cui e' indispensabile assicurare buon uso) sia dalla visione fondata sull'apparente paradosso dei "vizi privati, benefici pubblici" reso celebre da Bernard de Mandeville.
La teoria della societa' civile abbozzata dagli "umanisti civili" del XIII secolo ha il merito di porre in evidenza le condizioni positive dei processi di crescita della ricchezza, sia attraverso l'impegno economico dei singoli nella "vita civile attiva" sia attraverso il consolidamento di relazioni orizzontali nelle istituzioni e nella comunita' politica. In questo modo, le connessioni tra economia civile e societa' civile passano in primo piano, e insieme la societa' civile mantiene il suo significato originario di comunita' essenzialmente politica fondata sulla relazione di cittadinanza.
La "teoria civile delle ricchezze" e' basata sulla connessione tra struttura orizzontale della comunita' politica e dinamiche di crescita del reddito e della ricchezza. In questa prospettiva, l'espandersi delle relazioni di scambio attraverso i mercati e' semplicemente un aspetto di un processo che ha le sue radici nell'organizzazione della societa' civile come societa' politica e, in particolare, nella liberta' di accesso alle opportunita' di formazione della ricchezza. Cio' vale a differenziare la commercial society, di cui parla Adam Smith, dalla societa' civile delle ricchezze. In quest'ultima, il tessuto connettivo principale e' fornito direttamente dall'interazione fra capacita' umane piuttosto che dalla mediazione dell'interesse attraverso gli scambi. Vale a dire, la struttura della societa' civile riflette in primo luogo una composizione di capacita positive (virtu') piuttosto che la composizione di interessi distinti caratteristica della societa' commerciale.
Cio' nulla toglie alÞ'importanza delle relazioni di mercato. Anzi, si puo' dire che la diffusione di queste ultime - spesso collegata alla dinamica di accrescimento del reddito nei sistemi economici moderni - puo' essere inserita all'interno di una piu' estesa rete di rapporti sociali, in cui la stessa societa' di mercato si configura sempre piu' chiaramente come un aspetto (sia pure spesso essenziale) della struttura orizzontale della societa' civile. In particolare, condizione necessaria per l'inserimento delle relazioni di mercato nel quadro complessivo dell'economia civile appare la progressiva riduzione dei diritti "ascrittivi" (diritti di appartenenza a particolari ceti o gruppi sociali) e il consolidamento di uno spazio di liberta' fondato su diritti "non ascrittivi" (generali oppure circoscritti a categorie particolari ma "aperte" di soggetti).
La societa' civile si configura quindi come una costruzione dinamica, in cui nuovi diritti e nuove sfere di liberta' possono consolidarsi sulla base di un criterio regolativo fondamentale, costituito appunto dalla "non ascrittivita'" dei diritti e delle capacita' di azione. All'interno della societa' civile, la "vita civile economica" e' a sua volta fondata su una complessa interazione fra diritti, capacita' e relazioni di fiducia, in cui e' centrale l'autonomia dei singoli nei processi di produzione del reddito.
Alla luce di quanto precede, diviene necessario ripensare, in modo originale, le relazioni tra mercato, Stato, societa' civile a partire dalla considerazione che le nostre societa' avanzate possono essere viste come vasti sistemi di distribuzione di parecchie categorie di beni: beni privati (tipicamente i beni mercantili che transitano per il mercato); beni pubblici e beni meritori (istruzione, salute, sicurezza); beni relazionali (reti di fiducia, servizi alla persona, capitale sociale).
Il problema e' allora quello di sapere quali tra questi "beni" siano suscettibili di essere prodotti e distribuiti secondo le regole del mercato (vale a dire le regole della societa' commerciale) e quali esigano invece un altro modo di produzione e di distribuzione, o quello dell'economia pubblica o quello dell'economia civile.
Invero, la critica oggi accettabile del capitalismo e' quella del capitalismo come sistema di distribuzione dei beni che identifica la totalita' dei beni con quelli mercantili. - Il capitalismo va dunque criticato quando pretende, in questo preciso senso, di diventare "totalitario" e totalizzante.
Cio' significa che la sfida dell'oggi e' quella di tracciare i confini della sfera mercantile e non gia' quella di modificare la logica di funzionamento dell'istituzione mercato, la quale, al pari di ogni altra istituzione, possiede sue proprie norme costitutive. Intaccare o modificare una o piu' di queste norme significa semplicemente distruggere l'istituzione stessa oppure condannarla a generare effetti perversi. Quel che occorre invece comprendere e' che la pluralita' delle categorie di beni oggi domandati dai cittadini di una moderna economia esige modi diversi di psoduzione e di distribuzione - non si producono allo stesso modo beni privati e beni relazionali, ad esempio - e dunque che una societa' autenticamente "liberale" non puo' limitarsi a garantire il pluralismo nelle istituzioni, ma deve spingersi fino a rendere possibile il pluralismo delle istituzioni economiche.
La difesa dell'ordine di mercato non puo' avvenire prescindendo dai fini che gli uomini che vivono in societa' si propongono di raggiungere. Il mercato e i suoi elementi costitutivi (profitto, proprieta' privata, liberta' di impresa, ecc.) si giustificano solo in relazione ai fini che essi permettono di raggiungere e ai valori che tali fini realizzano. Ma fini e valori non sono immanenti al mercato stesso,il quale per cio' stesso non puo' autodefinirsi; non e' cioe' in grado di trovare dentro se stesso le ragioni della propria legittimazione. Ad esempio, non e' vero che c'e' liberta' perche' c'e' il libero mercato; e' vero piuttosto che il mercato e' libero in quelle societa' dove e' assicurata e perseguita la liberta'.
E' noto che lo spazio nel quale ha operato ed opera il terzo settore e' quello fin qui occupato dallo Stato sociale, anche se nulla autorizza a ritenere che esso debba limitarsi a cio'. L'impalcatura dello Stato sociale e' cresciuta negli ultimi cinquant'anni sulle strategie perseguite per connettere mondo della produzione e mondo della riproduzione sociale sviluppo economico e benessere sociale, processi di allargamento della domanda e processi di ridistribuzione e inclusione, e per innescare cos sinergie. Pensato e realizzato all'inizio come un ponte, lo Stato sociale ha finito per costruire barriere e mura rispetto all'obiettivo di connettere le due sfere, al punto che oggi e' la sua stessa ragion d'essere che e' in discussione. Eppure, le ragioni dell'obiettivo originario sono, oggi, piu' che mai importanti.
Ci sono due illusioni. Che i problemi si risolvano se ci si libera non solo dallo Stato sociale, ma anche dall'onere di costruire ponti che mettano in connessione le due sfere: e' l'illusione di stampo liberista; o, complementarmente, che l'unica speranza di constastare la polarizzazione stia nel difendere, razionalizzandolo, lo Stato sociale; e' cio' che resta della prospettiva socialdemocratica, o neo-statalista. Chi ragioria nella prospettiva del terzo settore non si fa piu' alcuna illusione sulla possibilita' di tenuta dello Stato sociale rispetto alla pressione sia delle forze antistatalistiche sia della massa di problemi cui esso dovrebbe far fronte. Tuttavia, ritiene importante incidere in positivo sull'opera di decostruzione in atto, valorizzando le energie che vi si liberano, le culture e le esperienze che vi si sono depositate.
Ragionare in questi termini significa enfatizzare l'altra funzione strategica che il terzo settore svolge nelle nostre societa' avanzate, una funzione assai piu' delicata di quella gia' di per se' importante, di fornire quei beni, pubblici e relazionali, che ne' il mercato ne' lo Stato sarebbero in grado di offrire in modo efficiente ed appropriato. Si tratta, in buona sostanza, di questo.
Sarebbe pressoche' inutile creare una struttura equa per le istituzioni sociali se gli individui non perseguissero l'equita'. Poniamo, infatti, che i principi di equita' richiedano una Costituzione democratica e uno stato sociale fortemente redistributivo. Se i cittadini non volessero veramente l'equita' essi userebbero i loro diritti democratici per cambiare il sistema e per smantellare lo Stato sociale.
Ecco perche' e' importante stabilise se nelle organizzazioni del terzo settore gli individui cercano veramente di essere equi e se vengono educati a condividere il benessere e se questo, a sua volta, condiziona il loro atteggiamento nei riguardi della partecipazione a sistemi sociali piu' ampi.
L'azione volontaria - e, piu' in generale, quella cooperativa - produce vantaggi reciproci, la cui somma e' maggiore della somma dei singoli vantaggi individuali che scaturirebbero dal conflitto e dall'isolamento. L'azione volontaria, quindi, e' effettivamente conveniente, ma a condizione che tutti riescano a percepire una quota dei vantaggi che ne derivano. La divisione dei benefici presuppone criteri di equita' in quanto il concetto stesso di ripartizione puo' essere spiegato soltanto in termini di cio' che e' equo. Ne segue che il terzo settore implica, in ultima istanza, la definizione di alcuni criteri di equita' distributiva. Cio' e' di grande importanza nella comprensione sia di come la massimizzazione del benessere personale attraverso l'azione volontaria implichi necessariamente un concetto di equita' applicato alla sfera distributiva, sia di come quest'ultimo sia conseguentemente una sorta di "legge di natura" delle organizzazioni del terzo settore.
E' questa fondamentale legge del "terzo settore" che agisce' ai livelli inferiori della societa' e che costituisce un processo invisibile e universale - analogamente alla "mano invisibile" di Adam Smith - capace di indirizzare la distribuzione del benessere verso quote eque.
Ma la mano invisibile che redistribuisce il benessere non opera, come Smith sosteneva accadesse per la produzione del benessere - cioe' per il mercato - senza la chiara consapevolezza degli agenti. Chi ci circonda deve essere percepito come un collaboratore potenziale di cui fidarsi, con bisogni e aspirazioni diversi ma comparabili ai nostri. La mano invisibile del "terzo settore" opera, quindi, attraverso le credenze, i valori ed i sentimenti di ciascuna persona e non - come invece nella visione smithiana - nonostante tali credenze, valori e sentimenti.
Le organizzazioni del terzo settore dipendono pertanto dal comune riconoscimento, il piu' delle volte implicito, che una qualche equita' nella distribuzione del benessere vada a vantaggio di tutti. Senza la condivisione del valore dell'equita', il terzo settore non progredirebbe e senza la cooperazione informale tipica di tale settore non potrebbero funzionare le strutture formali della societa'. Anche i sistemi di dimensioni maggiori e di natura impersonale - come appunto il mercato - dipendono, utilmente, dai concetti di vantaggio reciproco e di criterio di equita' nell'applicazione delle regole - persino nell'eventualita' di perdite o di guadagni individuali rilevanti nel breve periodo.
Allo stesso modo, nessun sistema politico puo' permettersi di ignorare nel lungo periodo il concetto che tutti i cittadini dovrebbero ottenere dei vantaggi derivanti dall'essere membri della societa', giacche' e' proprio questo che essi si aspettano facendo parte della societa'.
E' in questo senso che si puo' affermare che i sistemi informali tipici del terzo settore sono alla base di tutti i sistemi formali. Riconoscere il contributo al benessere sociale dato alle onluss mediante l'autoassistenza reciproca significa riconoscere tali attivita' come fondamentali per tutti i rapporti sociaIi e per tutte le sfere formali correlate. Il terzo settore e' potenzialmente impopolare quando viene presentato come alternativo agli altri due settori, come un ostacolo alla crescita economica. E' potenzialmente popolare quando invece viene presentato come fondamentale garante delle identita' di base e come il soggetto politico che permette la liberta' e la flessibilita' di accesso a tutte le sfere nelle quali il benessere viene distribuito
Questo modo di visualizzare il ruolo del terzo settore, in quanto luogo ideale in cui si realizzano modi stabili di condivivisione del benessere, rende giustizia alle due modalita' secondo le quali, nelle nostre moderne economie, possiamo dire di essere l'uno prossimo dell'altro e di doverci cooperazione e rispetto. Da un lato siamo tutti interdipendenti, a quanto parte di una sola economia altamente integrata e di un solo sistema politico complesso; la societa' puo' soddisfare i nostri bisogni di base soltanto se funziona in modo efficiente ed equo a questo livello piu' vasto. Pochi sarebbero in grado di perseguire i propri piani di vita, se i sistemi formali dei quali facciamo parte - soprattutto Stato e mercato - dovessero crollare. Dall'altro lato, le possibilita' che abbiamo di cooperare attivamente e di essere equi si limitano sostanzialmente al livello informale. Ô qui che negoziamo con gli altri le modalita' di conciliazione tra i progetti e gli impegni personali e quelli comuni; e' qui che impariamo a confrontare il nostro benessere con quello altrui, a progettare ruoli e regole che producano giuste quote. Lo Stato deve riconoscere cio' e incoraggiarlo e deve operare in modo che questi processi si armonizzino con la distribuzione di benefici e con i suoi servizi.
Lo sviluppo economico ha privato molta gente di gran parte delle risorse che impegnava per provvedere a se stessa e per assistersi reciprocamente. Esso ha fornito in cambio una psosperita' molto maggiore, ma a costo di ancora maggiore insicurezza; il che costituisce un fondamento assai debole per accrescere la fiducia reciproca a espandere la cooperazione, entrambe indispensabili per lo sviluppo economico stesso. Occorre dunque prendere atto che non di una ma di due mani invisibili hanno bisogno le nostre societa' avanzate per continuare a essere tali: l'una, quella del mercato, opera per la produzione su basi sempre piu' allargate del benessere: l'altra quella del terzo settore opera per assicurare a tutti liberta' di accesso alle sfere di distribuzione del benessere.
Molti si chiedono oggi se sia ormai troppo tardi per parlare di difesa della societa' civile. In effetti, a forza di parlare sempre e solo di Stato e mercato, e' accaduto che si sia finito col dimenticare la societa' civile, questo luogo dove si costituiscono le microistruzioni e dove si coltivano i comuni codici etici che fungono da fattori di dinamizzazione del sistema delle relazioni umane. Sembra proprio che il clima d'opinione si stia oggi orientando verso una visione pessimistica della natura umana. Pare emergere un chiaro consenso sul fatto che la maniera piu' facile e meno rischiosa per realizzare un programma sia quella di partire dal presupposto peggiore - che le persone sono egoiste, pigre, edoniste e immutabili. Il mondo e' sempre piu' visto come la foresta di Hobbesiana memoria, privata di ogni senso della comunita' e popolata da cittadini che sono incapaci di generare un sia pur minimo cambiamento.
Secondo questa immagine, l'unico modo di garantire un ordinato e produttivo funzionamento della societa' e' quello di affidarsi alla disciplina; e la disciplina puo' essere mantenuta solo attraverso incentivi materiali. In questa interpretazione pessimistica della natura umana, le persone sono intrinsecamente incapaci di creare una comunanza di obiettivi pratici e devono pertanto essere assoggettate ad un sistema di potere e alle dure regole del mercato.
In anni recenti, il messaggio centrale proveniente dagli studiosi del comportamento e' che gli uomini sono esseri particolarmente egoisti. I biologi sostengono che il comportamento e' in ultima analisi determinato da stimoli esclusivamente materiali, e che l'inarrestabile funzionamento della selezione naturale finisce per far soccombere tutti gli organismi che non sfruttano le opportunita' di guadagno personale loro aperte. Gli psicologi affermano questa stessa tesi, evidenziando il significato persuasivo degli stimoli materiali nel processo di apprendimento. Gli economisti, dal canto loro, fanno fede orgogliosamente sulla forza dell'interesse personale per spiegare e prevedere i comportamenti, non solo nel mondo degli scambi, ma anche nei sistemi di relazioni sociali. E tuttavia resta il fatto evidente che non pochi possono essere identificati attraverso l'immagine caricaturale dell"'io per primo".
Le teorie economiche sulla natura umana hanno conseguenze pratiche molto importanti. Influenzano la conduzione degli affari internazionali, la definizione e la portata delle politiche di regolamentazione, la struttura degli schemi di tassazione. Suggeriscono le strategie d'impresa per prevenire la deresponsabilizzazione dei dipendenti, per contrattare con i rappresentanti sindacali, per fissare i prezzi. Nella vita di tutti i giorni esse influenzano il modo con cui scegliamo i nostri collaboratori, addirittura il modo con cui spendiamo il nostro reddito, l'ambito stesso nel quale occorre definire contratti formali e cosi' via.
Ma cio' che piu' conta e' che le nostre teorie sulla natura umana contribuiscono a dare forma alla natura umana stessa. Cio' che pensiamo di noi stessi e delle nostre potenzialita' determina il livello ed il tipo di aspirazioni che nutriamo, modifica il nostro modo di educare i figli, tanto a casa quanto a scuola. Ed e' qui che i perniciosi effetti della teoria dell'interesse personale sono piu' devastanti, perche' essa ci porta a pensare che comportarsi moralmente equivale ad invitare gli altri a prendersi vantaggio di noi. Suggerendo di aspettarci sempre il peggio dagli altri, essa ci induce ad esprimere la parte peggiore di noi: per paura di interpretare il ruolo degli sciocchi siamo spesso restii a prestare ascolto ai nostri ideali piu' nobili.
Tuttavia, l'assunto secondo il quale ogni comportamento morale e' soggetto a severe forme di punizione e' assolutamente privo di fondamento. Nessuno nega l'importanza delle motivazioni autointeressate, ma non si puo' neppure negare che il mondo degli stimoli materiali non conceda spazio anche alle piu' nobili motivazioni. Abbiamo sempre saputo che la societa' vive meglio nel suo complesso se le persone rispettano le legittime liberta' degli altri.
Tuttavia, cio' che non viene mai detto chiaramente e' che il comportamento morale spesso conferisce vantaggi materiali alle stesse persone che lo praticano. Che questi benefici esistano e' una circostanza estremamente incoraggiante perche' da essa puo' nascese una passione nuova per il possibile. Il problema e' che a causa dell'influenza esercitata dal modello dell'interesse personale la nostra fiducia negli altri si e' pericolosamente ridotta. Mentre sappiamo molto circa le implicazioni del comportamento autointeressato, quasi nulla sappiamo delle conseguenze del comportamento solidaristico. A sua volta, cio' ha contribuito a fare di disposizioni quali l'altruismo e la fiducia categorie residue, inattaccabili dall'esame razionale, come se il dominio della razionalita' coincidesse, senza scarto, con quello del perseguimento del solo interesse personale.
L'idea che esista un conflitto ineluttabile tra opzioni morali e incentivi materiali, tra solidarieta' e competizione o che uno di questi elementi possa operare efficacemente in assenza dell'altro e' un aspetto ingenuo e anacronistico della nostra eredita' intellettuale. Esso e' smentito dall' esperienza storica oltre che dalla piu' rigorosa riflessione teorica. La sfida che in questo nostro tempo occorre raccogliere e' mostrare che quelle che paiono essere irriducibili antinomie possono diventare, in realta', altrettante occasioni per realizzare un ampliamento della frontiera delle liberta'.
Per concludere. C'e' oggi nella nostra societa' un muro che tiene drasticamente separate due sfere, la cui polarizzazione e' uno dei pericoli piu' gravi: lo Stato e il mercato; la giustizia sociale e l'efficienza economica; l'assistenza e la produzione, e cos via. Quel che occorre fare e', allora, sostituise ad una architettura di muri una architettura di ponti. Il terzo settore e l' economia civile che esso manifesta sono capaci di associare queste due sfere. Essi si muovono in quello spazio di confine nel quale le due sfere dello Stato e del mercato interagiscono e si contaminano reciprocamente, innescando sinergie dalle quali entrambe escono arricchite.
stefano zamagni
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